Intervista a Igino Brian, fondatore di IDA Onlus – Education For the Future Organization, che ci ha raccontato come è nato il progetto Scuola e Casa Famiglia a Phnom Penh.
Questa intervista nasce dall’amicizia di Leonardo Fabbri con Igino Brian e dalla volontà di dare visibilità e far conoscere un progetto che noi apprezziamo molto, che ha dato vita al laboratorio orafo in un villaggio alle porte di Phnom Pehn, dove i ragazzi e le ragazze di strada che partecipano al progetto danno vita a gioielli della speranza, sia per costruire un futuro per loro, sia perché realizzati da materiale riciclato proveniente dalle mine antiuomo, un problema ancora molto presente in Cambogia.
[Nonostante non ci conoscessimo, è stato naturale e immediato darsi subito del tu con Igino Brian, ndr]
Come sei arrivato in Cambogia, Igino?
Ho studiato in Italia e sono diventato orafo. Ho fatto la scuola di modellistica, disegno, incastonatura. Ad un certo punto della mia vita ho messo il mio talento a disposizione dei ragazzi di strada in Cambogia, per dare loro un mestiere e un futuro.
Come è nato il progetto?
Molti anni fa, nel 1996, con mia moglie abbiamo adottato un bimbo in Cambogia. Da lì è iniziato il legame con questo paese.
Con mia moglie eravamo andati in Cambogia per fare volontariato con i salesiani. Dovevamo fare un mese di prova, ma abbiamo incontrato nostro figlio e quello ha cambiato le cose. L’esperienza di volontariato si è conclusa con l’adozione. E siamo rientrati in italia.
Abbiamo visto tanta povertà in quel periodo. Dopo essere tornati a casa in Italia, abbiamo deciso di fare qualcosa a distanza. Così abbiamo iniziato a fare una raccolta di soldi con i nostri amici e contatti da inviare in Cambogia.
Ci siamo resi conto presto che quello che facevamo aiutava ma non risolveva.
Allora abbiamo iniziato a pensare di venire qua [adesso Igino vive in Cambogia, ndr] e avviare un progetto per insegnare ai bambini un mestiere, che gli permettesse di mantenersi.
Con mia moglie, che adesso non c’è più, abbiamo studiato il progetto per 8 anni. E ad un certo punto ci siamo chiesti: cosa facciamo, continuiamo dall’Italia oppure andiamo in Cambogia?
La spinta è stata molto forte. In quel periodo c’era stato un mio riavvicinamento alla religione. È allora che ho sentito la chiamata della missione. Siamo partiti e ci siamo trasferiti in Cambogia. E abbiamo aperto la scuola.
All’inizio avevamo cercato una associazione qui in Italia che ci appoggiasse. Ma dopo alcuni anni, capita la situazione abbiamo deciso di fare noi un’associazione.
L’organizzazione si chiama in Education For the Future Organization, è cambogiana, ed è già intestata ai ragazzi.
Perché fondare una associazione in Cambogia?
Prima come organizzazione internazionale, essendoci tanta corruzione, dovevamo sempre pagare qualcosa sottobanco.
Per questo abbiamo deciso di intestarla ai ragazzi, anche perché tutto quello che facciamo rimarrà qua e sarà loro. Strutture, apparecchiature e macchinari, etc.
E IDA Onlus?
È il nome dell’associazione italiana, attraverso cui è possibile fare donazioni dall’Italia.
Chi era IDA?
Ida era mia zia, che è stata come una mamma per me. Era una persona molto devota. Mentre io non lo ero. E a lei dispiaceva di non essere riuscita ad avvicinarmi a Dio.
Poi lei è morta. Quel giorno nella camera mortuaria ero solo con lei, piangevo. Le avevo chiesto qual era l’ultimo regalo che voleva. In quel momento ho sentito la sua voce che mi chiedeva di confessarmi e di fare la comunione. Da lì è iniziato il mio percorso spirituale che mi ha portato qui. Era il 1995, l’anno precedente all’adozione di mio figlio.
Chiaramente dall’adozione in poi ho continuato a coltivare questo mio percorso spirituale.
Quando poi è arrivato il momento di fondare l’associazione insieme alle altre persone coinvolte, abbiamo ricordato mia zia Ida e l’abbiamo voluta intitolare a lei.
Dove vi trovate in Cambogia?
In un villaggio a 15 kilometri da Phnom Pehn, dove 19 anni fa circa abbiamo acquistato un terreno. Allora era un villaggio di campagna, in mezzo alle risaie. Oggi la città l’ha inglobato.
La capitale della Cambogia sta crescendo ad un ritmo impressionante. E non si capisce per chi costruiscano: i grattacieli rimangono vuoti, perché il costo degli appartamenti non è alla portata delle persone di qui, che guadagnano mediamente tra i 150 e i 300 dollari al mese.
All’inizio avevamo due case in affitto, che ci costavano 800 dollari al mese. Non poco. Così abbiamo deciso di acquistare un terreno con l’idea di costruirci.
Abbiamo acquistato il terreno il terreno nel 2013. All’inizio non avevamo la possibilità di costruire subito la casa (era un progetto importante e costoso, che ancora non è finito), così abbiamo costruito un piccolo capannone, per mettere alcuni macchinari, e lì abbiamo iniziato l’attività. Il capannoncino c’è ancora e lo continuiamo ad utilizzare.
Oltre a quello oggi abbiamo il laboratorio-scuola, bello, abbastanza grande.
E infine abbiamo realizzato una casa famiglia, una struttura con quattro camere con bagno, dove possiamo ospitare alcune persone.
La povertà oggi è la stessa di 19 anni fa?
Le famiglie e i bambini poveri ci sono ancora oggi. Nonostante lo sviluppo importante che c’è stato. Ma non ha toccato tutta la popolazione. Chi è riuscito ad entrare nell’ingranaggio sta bene. Chi invece non c’è riuscito sta ancora male. Di baraccopoli ce n’erano diverse e le hanno smantellate, man mano che costruivano. Ma i poveri ci sono ancora, si sono solo spostati fuori città. Di baraccopoli ce ne sono ancora, una anche vicino a dove siamo noi. Dove tra l’altro ci chiedono aiuto. Questa baraccolpoli è fatta di vere e proprie palafitte lungo un canale di scolo, una vera fogna cielo aperto.
Qual è il modello di accoglienza che mettete in atto?
In 19 anni abbiamo sempre accolto persone che ci chiedevano aiuto, nei limiti delle nostre possibilità. Ma non ho mai voluto dare l’illusione di aiutare se non potevo farlo. Se prendo dei ragazzi devo essere capace di poterli sostenere.
Quanti ragazzi avete accolto nel corso di questi 19 anni di attività?
Abbiamo formato circa 130-140 tra ragazzi e ragazze. Il numero preciso non lo so. Alcuni sono rimasti degli anni, sia ragazzi che ragazze: ragazzi, famiglie, ragazze con bimbi. Non a caso la scuola è anche una Casa famiglia. Le persone povere prima avevano un tetto sopra la testa, anche se era quello di una baracca. Ora invece neanche più quello. Con la scusa dello sviluppo, sono state eliminate le baraccopoli e in tanti dormono per strada. Per questo motivo noi abbiamo aperto la Casa Famiglia Patrizia.
Perché Patrizia?
Patrizia era mia sorella. Ha aderito al progetto ed è stata presidente dell’Associazione. Nel 2013 anche lei decise di venire in Cambogia. Però si ammalò appena acquistato il terreno e di lì a poco morì. Così abbiamo deciso, insieme agli altri, di intitolare l’associazione a lei, per ricordarla.
Qual è stato l’approccio della scuola?
Nel mio campo, quello dell’oreficeria, in Italia, sono capace a fare dal disegno all’oggetto finito. Quando ho deciso di fare questa scuola ho iniziato a lavorare con ragazzi che non sapevamo niente. Io ero un professionista. Non volevo che imparassero tanto per fare qualcosa. Volevo che imparassero bene. E mi sono impegnato a farli diventare professionisti. Questa è stata la carta vincente. Volevo che le persone acquistassero i gioielli per la loro qualità, non per beneficienza. E così è stato.
Poi abbiamo voluto collegare le lavorazioni della scuola al problema delle mine antiuomo, di cui la Cambogia è piena (si dice che ce ne siano ancora 6 milioni: oggi sono ancora molte le persone che muoiono per quel motivo, qui come altrove). Abbiamo adottato l’ottone per sensibilizzare il mondo intero su questo problema. Poi, nel tempo, abbiamo inserito altri materiali come il legno, la seta, le pietre e vari altri ancora. Un gioiello per la speranza è il nome che abbiamo dato alle nostre produzioni di gioielli.
Quanti ragazzi frequentano la scuola?
In questo momento ci sono 10-12 ragazzi nella scuola. Ma il numero è sempre stato più o meno questo. Negli anni ci sono stati ragazzi che sono rimasti fin dall’inizio e oggi insegnano ai nuovi arrivati. Adesso stiamo realizzando una seconda scuola.
Come vendete i gioielli che realizzate?
In Italia abbiamo una rete di negozi che rivendono i gioielli. All’inizio però non c’era e non era quello lo scopo: facevamo e rifacevamo continuamente i gioielli, per riutilizzare i materiali.
Nel corso del tempo ho conosciuto molti italiani, venuti qui in Cambogia magari per adottare dei bambini. Li ho conosciuti non perché io mi occupassi di adozioni, ma semplicemente perché parlando la lingua e conoscendo bene questi posti, li aiutavo a risolvere i problemi che dovevano affrontare.
Per questo motivo, ho conosciuto tante famiglie italiane e molti poi mi hanno aiutato a far conoscere la scuola e i nostri gioielli. In particolare, una persona che lavorava nel commercio equo e solidale ad un certo punto mi ha chiesto di poter provare a vendere i gioielli nei vari negozi di quella rete. Così, con i ragazzi abbiamo deciso di produrre dei gioielli per provare a venderli. Sono piaciuti e hanno iniziato ad ordinare. Oggi abbiamo abbastanza negozi che richiedono i nostri gioielli.
Sei in contatto con i ragazzi e le ragazze che sono passati dalla scuola nel corso di tutti questi anni?
Ho un rapporto con la maggior parte di loro, ed è bellissimo, quasi filiale. Alcuni mi chiamano papà. Ed è normale. All’inizio avevamo un’interprete. Ma mi resi conto fin da subito che i ragazzi avevano problemi seri, anche di vita o di morte. E con l’interprete non entravo in confidenza con loro.Mi sono impegnato per apprendere il cambogiano. E i ragazzi piano piano hanno iniziato a confidarsi con me.
Mollare tutto, lasciare e prendere una strada incerta, vivere di provvidenza: la mia è una missione. Non ho uno stipendio fisso. Ma in 19 anni non ci è mancato nulla. Adesso abbiamo anche adottato come associazione un neonato abbandonato. L’abbiamo chiamato Amien, che significa “bimbo che ha”. Era nudo, non aveva niente. Adesso ha una famiglia. L’altro mio figlio adesso ha 27 anni e vive in Italia. Ma prima ha vissuto con noi qui, ha studiato, e poi è voluto tornare in Italia con sua moglie.
Quanto è conosciuta IDA Onlus in Italia?
Oggi è abbastanza conosciuta in Italia anche grazie ai tanti italiani che hanno adottato bambini in Cambogia. E io sono stato un punto di riferimento per molti. Sono stato il primo. E poi ho aiutato molte persone e siamo diventati amici. Come con Leonardo [Fabbri, ndr] di Elfi Electronics.
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